Una volta alla settimana, una notizia che ci permetta di capire cosa succede in Francia - o in Europa. A chi legge, la possibilità di comprendere una realtà complessa, ma che appartiene a tutti noi.
Una repressione silenziosa
30 novembre 2025
Elena Ministrello è una giovane illustratrice e fumettista che lo scorso weekend avrebbe dovuto presenziare a un festival di fumetti in Francia, a Tolosa, in occasione dell’uscita dell’edizione francese del libro a cui ha collaborato, Sindrome Italia. La casa editrice aveva organizzato tutto: viaggio e pernottamento per due giorni, per partecipare a un evento che si preannunciava come un’occasione importante per il suo lavoro.
Appena scesa dall’aereo, nella serata di venerdì 23 novembre, Ministrello si ritrova però di fronte alcuni agenti di polizia che la fermano e le comunicano che non può mettere piede in Francia. Nemmeno loro sanno essere precisi riguardo alle accuse: le riferiscono soltanto che esiste una segnalazione del Ministero dell’Interno sulla presunta pericolosità della sua persona. Spaesata e interdetta, l’artista cerca di spiegare il motivo del suo viaggio, mostrando l’invito ufficiale del festival e affermando di non aver mai avuto problemi con la giustizia francese. La polizia ignora ogni tentativo di spiegazione e resta irremovibile. Le dicono che deve risalire immediatamente su un aereo diretto a Milano perché hanno l’ordine di rimpatriarla e che, se si rifiuta, “sarà peggio per lei”: verrà arrestata e trasferita in un centro di detenzione amministrativa per migranti (CRA).
Tutto si svolge in quindici minuti, al termine dei quali Ministrello decide di imbarcarsi sul volo indicato. A bordo le viene consegnato il verbale di rimpatrio, in cui si specifica che non ha potuto entrare in Francia poiché costituisce “una grave minaccia per l’ordine pubblico francese” e che, di conseguenza, è sottoposta a una misura di interdizione all’ingresso nel Paese.
Cercando tra i ricordi una possibile spiegazione, l’illustratrice pensa alla sua partecipazione, nel giugno 2023, alle giornate di assemblee e manifestazioni organizzate a Parigi per il decimo anniversario dell’omicidio di Clément Méric, giovane antifascista ucciso nel 2013 a soli diciotto anni da un gruppo di estremisti di destra.
La morte del ragazzo aveva profondamente scosso la Francia, già attraversata tra il 2012 e il 2013 da grandi movimenti conservatori e da mobilitazioni dell’estrema destra contro la proposta del presidente socialista François Hollande di introdurre il matrimonio egualitario. Quel clima contribuì ad esasperare le tensioni politiche. Nel giugno 2013 Méric venne aggredito da alcuni skinhead con simpatie neonaziste e colpito violentemente con un tirapugni; morì il giorno successivo in ospedale. Hollande, il primo ministro Jean-Marc Ayrault e il ministro dell’Interno Manuel Valls condannarono duramente l’episodio. I responsabili dell’uccisione vennero identificati in due militanti di estrema destra, condannati nel 2021 rispettivamente a otto e cinque anni di reclusione.
Nel giugno 2023, in occasione del decennale della morte di Méric, migliaia di antifascisti provenienti da tutta Europa si sono radunati a Parigi nel luogo dell’aggressione. Anche Elena aveva preso parte alle iniziative, svoltesi senza tensioni né episodi di violenza. Era a conoscenza del fatto che diversi giovani italiani, rientrando in patria dopo le manifestazioni, avevano avuto problemi ai controlli di frontiera, con interrogatori insistenti sui loro spostamenti. A nessuno, tuttavia, era mai capitato di essere bloccato o respinto.
Ministrello ha poi scritto che il suo lavoro di artista la porta a conoscere il mondo, informarsi, essere inevitabilmente politica. Partecipare a iniziative e manifestazioni si intreccia con il suo lavoro di fumettista e influenza ciò che disegna. Il libro che avrebbe dovuto presentare a Tolosa, Sindrome Italia, racconta la storia delle badanti in Italia e delle donne dell’Est Europa che arrivano nel nostro Paese per assistere i nostri anziani. Il volume esplora chi fossero prima di diventare badanti, cosa lasciano nei loro Paesi, quali sogni conservano: restituisce umanità a una professione spesso dimenticata.
Quando si svolge un lavoro pubblico, si mette in conto di poter essere oggetto di attenzioni da parte degli organi statali; tuttavia, essere rimpatriata con la forza è un atto che va molto oltre. La gravità dell’accaduto racconta molto della deriva autoritaria e repressiva degli Stati occidentali – anche se spesso la percepiamo come qualcosa di lontano – nei confronti di attivisti, militanti politici o semplicemente persone che esprimono posizioni non gradite.
Negli stessi giorni, si è diffusa anche la notizia che il festival del fumetto di Angoulême, uno dei più prestigiosi al mondo, potrebbe essere annullato a seguito del boicottaggio di artisti e attivisti. Secondo il Guardian, il governo francese avrebbe ritirato una parte cospicua dei finanziamenti dopo alcune denunce riguardanti la cattiva gestione dell’evento: sfruttamento dei volontari, aumento eccessivo dei prezzi dei biglietti e una crescente commercializzazione di un festival che dovrebbe essere, prima di tutto, culturale. A far esplodere il caso è stata però la denuncia di tentato stupro presentata nel 2024 da una dipendente del festival, licenziata proprio dopo aver segnalato l’accaduto. Quando la notizia è trapelata, le autrici hanno avviato il boicottaggio, presto seguito da numerosi autori ed editori che hanno dichiarato di non voler partecipare in alcuna forma finché la società organizzatrice non riconoscerà le proprie responsabilità.
Lo scandalo è arrivato fino alla politica: la ministra della Cultura Rachida Dati ha annunciato un taglio di oltre il 60% dei finanziamenti statali al festival. Una decisione che appare come una punizione economica – considerando che per la città di Angoulême il festival è una risorsa essenziale – senza alcun ripensamento strutturale o cambiamento di fondo, e che rischia solo di aggravare la crisi generale del settore.
Queste crisi di immagine sollevano interrogativi sul sistema dei grandi festival francesi: eventi glamour, vetrine prestigiose che però si reggono su lavoro precario, volontariato non riconosciuto e governance opaca.
Questa settimana ho scritto di elezioni in Iraq e frammentazione regionale, trovate il pezzo qui → link all’articolo.
Yogurt e guai giudiziari
15 novembre 2025
Neanche venti giorni in prigione. Lunedì 10 novembre, l’ex Presidente francese Nicolas Sarkozy è stato rilasciato dal carcere dopo appena venti giorni di custodia cautelare, a seguito di una decisione della Corte d’Appello di Parigi. Durante l’udienza per esaminare la sua richiesta di libertà, Sarkozy ha ripetuto più volte che la detenzione “è stata dura, molto dura”, estenuante per qualsiasi detenuto, ha aggiunto.
L’ex capo dello Stato era stato condannato il 25 settembre a cinque anni di carcere con immediato mandato di deposito per cospirazione nel finanziamento libico della sua campagna elettorale — avevo raccontato la vicenda in un articolo precedente. Il Tribunale di Parigi lo aveva ritenuto colpevole di aver permesso ai suoi collaboratori di sollecitare finanziamenti occulti dalla Libia di Gheddafi per la campagna del 2007. A suscitare particolare stupore, oltre alla condanna — senza precedenti per un ex Presidente nella storia francese — era stato proprio il mandato di arresto immediato, giustificato dai giudici con la “gravità eccezionale” dei reati contestati.
Gli avvocati di Sarkozy avevano presentato una richiesta di scarcerazione pochi minuti dopo il suo ingresso in prigione. Il ricorso dell’ex Presidente ha ricollocato la sua detenzione nel quadro della custodia cautelare, e non più dell’esecuzione della pena. In questo caso, l’articolo 144 del Codice di procedura penale francese stabilisce che il mantenimento in carcere è possibile solo se rappresenta l’unico mezzo per proteggere le prove, impedire pressioni o concertazione tra imputati, prevenire una fuga o una recidiva.
Alla fine di ottobre, Sarkozy aveva ricevuto in carcere la visita del ministro dell’interno Gérald Darmanin, incontro che aveva suscitato critiche, soprattutto da parte dei magistrati. Il procuratore generale della Corte di cassazione, Rémy Heitz, in una rara presa di posizione, aveva denunciato un “rischio di ostacolo alla serenità” e dunque “un attentato all’indipendenza dei magistrati” prima del processo d’appello.
Darmanin aveva mantenuto la promessa fatta otto giorni prima alla radio France Inter, dichiarando pubblicamente che avrebbe visitato il suo mentore politico. Un gruppo di trenta avvocati ha poi presentato un ricorso alla Corte di Giustizia della Repubblica contro il ministro per “illecita presa di posizione” in favore dell’ex Presidente.
La situazione è apparsa problematica per diversi motivi: un ministro della Repubblica non è un semplice cittadino e il suo ruolo richiede una scrupolosa neutralità, soprattutto in un procedimento giudiziario che coinvolge un suo ex alleato politico. Non è la prima volta che Darmanin viene criticato per dichiarazioni o comportamenti che aggirano alcune norme costituzionali, come quando — a margine di una conferenza — aveva affermato che il suo compito è “criticare la legge, se vuole cambiarla”.
In carcere l’ex Presidente era stato posto in isolamento, una misura giustificata dal suo status e dalle minacce che gravavano su di lui, come riferito dal ministro dell’Interno Laurent Nunez. Hanno suscitato inoltre una certa ilarità le indiscrezioni sul regime alimentare seguito da Sarkozy durante la detenzione: diversi giornali — il primo a riportarlo è stato Le Point — hanno raccontato che per venti giorni si sarebbe nutrito quasi esclusivamente di yogurt e di qualche scatoletta di tonno. Insomma, una dieta tutt’altro che confortevole, che ricorda quella di uno studente fuorisede qualsiasi. Secondo alcune fonti, Sarkozy avrebbe limitato l’alimentazione per timore di ostilità riversate sul cibo da parte di altri detenuti; secondo altre, la spiegazione sarebbe più semplice: Nicolas non saprebbe cucinare nemmeno un uovo.
Ora che Sarkozy è libero in attesa del processo d’appello, la Corte ha stabilito per lui il divieto di contattare diversi funzionari del Ministero della Giustizia — tra cui il guardasigilli — per garantire la regolarità del procedimento, alla luce dei rapporti personali e politici che l’ex Presidente intrattiene all’interno delle istituzioni francesi.
Nel frattempo, una polemica ha travolto France Info, il canale televisivo accusato questa settimana di aver diffuso grafici gravemente distorti relativi ai risultati di recenti sondaggi sulle intenzioni di voto per le elezioni presidenziali del 2027. Le barre del diagramma trasmesso in televisione esageravano visivamente il peso di François Hollande, ex Presidente socialista (6,5%), e di Xavier Bertrand (5,5%), figura di spicco della destra ed ex ministro sotto Chirac e Sarkozy, mentre ridimensionavano in modo evidente i risultati di Jean-Luc Mélenchon (12%), leader de La France Insoumise, e di Marine Tondelier (5,5%), rappresentante degli ecologisti. Le colonne venivano manipolate graficamente fino a rendere equivalenti valori molto diversi, generando confusione e trasmettendo una percezione completamente falsata agli spettatori.
La rappresentazione distorta ha scatenato numerose reazioni sui social. France Info ha pubblicato delle scuse ufficiali, ma sono servite a ben poco: il grafico successivo diffuso dall’emittente conteneva gli stessi errori, offrendo nuovamente un’immagine imprecisa e fuorviante.
I sondaggi utilizzati provenivano dall’istituto Elabe ed erano stati commissionati dal giornale La Tribune e da BMFTV, testate appartenenti rispettivamente ai miliardari Rodolphe Saadé e Vincent Bolloré. È quindi probabile che le direzioni editoriali — o i proprietari stessi — abbiano influito sulla presentazione di informazioni di interesse pubblico, con l’obiettivo di orientare, almeno visivamente, la percezione delle notizie.
L’episodio ha rilanciato il dibattito sul ruolo della proprietà privata dei media e sull’influenza politica di chi li controlla. In Francia, infatti, oltre il 90% dei giornali appartiene a un ristretto gruppo di miliardari, nove dei quali controllano più dell’80% dei media nazionali; undici dominano il panorama televisivo. Il rischio è evidente: viene compromessa la neutralità dell’informazione, si deteriora la qualità del dibattito pubblico e, più in generale, si mette a repentaglio la salute della democrazia.
Lo dimostra il caso di Vincent Bolloré, che dal 2020 ha accelerato la sua espansione nel settore mediatico, diventando un attore dominante grazie al controllo del gruppo Canal+, della casa editrice Editis, di Europe 1, RFM e del gruppo Prisma Media. Il cambio di rotta editoriale è stato netto e orientato verso un conservatorismo palese, visibile tanto nelle nuove linee dei suoi canali quanto nella sostituzione di giornalisti non allineati, trasformando i suoi media in veri e propri megafoni della destra identitaria, secondo molti. Nel gennaio 2025, Reddit France ha addirittura deciso di vietare i media di proprietà di Bolloré, classificandoli come fonti di disinformazione: una misura senza precedenti, ma indicativa di una crescente sfiducia nelle grandi concentrazioni di potere mediatico.
Rodolphe Saadé, dal canto suo, nel 2024 ha acquistato il gruppo Altice Media — che comprende l’emittente BFM TV, una delle più note in Francia — dove proprio quest’anno due giornalisti di lunga data si sono dimessi, segno evidente del malessere che attraversa la redazione. Già proprietario de La Provence e di La Tribune, Saadé sembra intenzionato a espandere ulteriormente il proprio impero mediatico.
Un altro miliardario (con un patrimonio netto di 200 miliardi all’incirca è l’uomo più ricco d’Europa) facente parte del gotha del capitalismo transalpino è Bernard Arnault, patron del gruppo di lusso LVMH, ma anche dei quotidiani Les Échos e Parisien. Lo scorso anno, insieme all’amico Bolloré, ha acquistato la prestigiosa scuola di giornalismo francese, l’École supérieure du journalisme (Esj) di Parigi: in molti si chiedono se verrà veramente migliorata, o se diventerà l’ennesimo strumento in mano a miliardari che ne faranno il proprio amplificatore di idee e finalità.
Al di là delle considerazioni economiche, la proprietà dei media è diventata uno strumento strategico di influenza politica. Chi controlla i mezzi più potenti di comunicazione può influenzare l’agenda pubblica, orientare il dibattito e modellare l’opinione comune. Non è una dinamica nuova — l’Italia erede di Berlusconi lo dimostra chiaramente — e non riguarda solo la Francia: questa settimana in Ungheria il tabloid più letto del Paese è stato acquistato da un gruppo vicino al primo ministro Orbán. Anche in questo caso l’operazione è stata interpretata come un ulteriore colpo alla libertà di stampa, già compromessa da anni, ma anche come un segnale di apprensione in vista delle elezioni di aprile. Il conglomerato orbitante attorno a Orbán controlla ormai più di 500 testate, con il risultato evidente che quando pochi controllano l’informazione, non è solo la stampa ad essere meno libera: lo diventiamo anche noi.
Questa settimana ho provato ad analizzare il conflitto tra Marocco e il Sahara Occidentale, e il risultato lo trovate qui → link all’articolo.
Una notizia di speranza
7 novembre 2025
Una notizia di speranza arriva dalla Francia questa settimana.
I cittadini francesi Cécile Kohler e Jacques Paris sono stati rilasciati dal carcere iraniano martedì 4 novembre, dopo oltre tre anni di detenzione, e si trovano ora presso la residenza dell’ambasciatore francese a Teheran in attesa della loro liberazione definitiva, come annunciato dal ministro degli Esteri Jean-Noël Barrot. Il presidente Emmanuel Macron, impegnato questa settimana alla COP 30 in Brasile, ha accolto con favore l’uscita di prigione dei suoi concittadini e ha dichiarato che la loro liberazione completa deve avvenire “il prima possibile”. Da parte sua, l’Iran ha precisato che i due francesi sono stati rilasciati su cauzione e che saranno posti sotto sorveglianza in attesa della prossima fase legale, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano.
Professoressa di letteratura lei, insegnante in pensione lui, Cécile e Jacques erano stati arrestati il 7 maggio 2022, l’ultimo giorno di un viaggio turistico in Iran. In un primo momento erano stati rinchiusi nella famigerata Sezione 209, riservata ai prigionieri politici del carcere di Evin – il principale penitenziario della Repubblica Islamica, dove è stata detenuta, tra i tanti, anche la giornalista italiana Cecilia Sala tra dicembre 2024 e gennaio 2025 – per poi essere trasferiti, lo scorso giugno, in un altro centro di detenzione mai reso noto, durante la guerra lampo con Israele. Il 14 ottobre avevano ricevuto condanne durissime: rispettivamente dieci e sei anni di carcere per spionaggio a favore dei servizi segreti francesi, e cinque anni per cospirazione e collusione per commettere atti contro la sicurezza nazionale. A queste condanne si aggiungevano pene ulteriori: per Jacques, 20 anni di prigione in esilio con l’accusa di cooperazione d’intelligence con il “regime sionista”, un’accusa inserita – secondo la terminologia di Teheran – in un “crimine di guerra contro Dio”; per Cécile, 17 anni per complicità in spionaggio.
Negli ultimi dieci anni l’Iran ha arrestato un numero crescente di cittadini occidentali, in particolare francesi, accusandoli di spionaggio per utilizzarli come merce di scambio: per ottenere la liberazione di cittadini iraniani detenuti in Occidente – come nel caso Sala – o per ottenere concessioni politiche. Secondo fonti diplomatiche, circa venti occidentali sarebbero ancora detenuti. Nel caso di Kohler e Paris, l’11 settembre Teheran aveva annunciato la possibilità di un accordo di rilascio in cambio di una donna iraniana arrestata in Francia a febbraio per aver promosso il terrorismo sui social media. La donna è stata rilasciata sotto sorveglianza giudiziaria in attesa del processo, previsto per gennaio. Nel marzo 2024 altri due cittadini francesi erano stati liberati. Al culmine della crisi degli “ostaggi di Stato” – un termine molto forte che la Francia non utilizza con nessun altro Paese, e che mira a colpire la reputazione del regime iraniano – Teheran aveva trattenuto contemporaneamente fino a sette cittadini francesi.
Sui social, in Francia e soprattutto a Parigi, si parla molto in questi giorni dell’apertura del primo negozio fisico europeo di Shein.
La sua inaugurazione, prevista nel lussuoso BHV Marais, era stata annunciata a ottobre, seguita dall’apertura graduale di altri cinque punti vendita sul territorio nazionale. Tuttavia, mercoledì 5 novembre Shein non ha avuto la grande inaugurazione che il suo CEO aveva sperato. Un’ora e mezza dopo il clamore per l’apertura del negozio di 1.200 metri quadrati all’interno dei grandi magazzini BHV in Rue de Rivoli, nel cuore di Parigi, il governo francese ha annunciato di aver “avviato una procedura di sospensione”contro la piattaforma cinese. Il sito, una vera spina nel fianco dell’industria tessile, rischia di non poter più vendere e consegnare i suoi pacchi in Francia, il suo principale mercato europeo.
Nonostante la popolarità della piattaforma – visitata da oltre 4,4 milioni di persone al giorno – il governo francese ha intrapreso una battaglia legale senza precedenti per costringerla a chiudere, anche a costo di aggirare la legislazione europea. Il comunicato ufficiale specifica che, su istruzione del primo ministro, il governo Lecornu intende sospendere Shein fino a quando la piattaforma non dimostrerà alle autorità che tutti i suoi contenuti sono conformi alle leggi francesi. L’annuncio fa seguito all’apertura di un’indagine da parte della procura di Parigi contro Shein per la vendita di bambole pedopornografiche, oltre alla scoperta della vendita di machete e tirapugni sulla stessa piattaforma. Shein ha riconosciuto la procedura di sospensione e ha annunciato lo stop temporaneo delle attività del suo marketplace, per consentire una revisione completa delle procedure e garantire il pieno rispetto della legislazione francese.
La Francia è il primo Stato europeo ad aver adottato la responsabilità estesa del produttore nel settore tessile – una normativa che estende la responsabilità dei produttori anche alla fine del ciclo di vita dei loro prodotti, coprendo finanziariamente e organizzativamente la raccolta, il riciclo e il riutilizzo dei rifiuti tessili. Da sempre in prima linea contro la fast fashion, il Paese ha recentemente approvato al Senato, in prima lettura, una legge contro la moda a bassissimo costo, una moda dai costi ambientali e sociali enormi.
Questa settimana ho scritto anche di Egitto e del suo ruolo attuale in Medio Oriente, se volete lo trovate qui → link all’articolo.
Un solo voto può cambiare tutto
2 novembre 2025
Per la prima volta dal 1958, anno di nascita della V Repubblica, in Francia è stato approvato un testo presentato dall’estrema destra. Con 185 voti a favore e 184 contrari, i deputati dell’Assemblée nationale hanno adottato una proposta di risoluzione volta a denunciare l’accordo franco-algerino del 27 dicembre 1968, inserita nell’ordine del giorno dal partito Rassemblement National (RN) nell’ambito del tempo parlamentare a esso assegnato.
Per comprendere la portata di questo accordo, bisogna tornare al secondo dopoguerra e, soprattutto, alla fine del dominio coloniale francese in Algeria nel 1962 – iniziato nel 1830. La decolonizzazione, accompagnata da forti flussi migratori verso la Francia – dovuti al ricongiungimento familiare, alla richiesta di manodopera e ai legami sociali e linguistici tra i due Paesi – rese evidente la necessità di una cornice giuridica bilaterale distinta dalle norme generali applicabili ai cittadini extra-UE. In questo contesto, il 27 dicembre 1968 Parigi e Algeri firmarono un accordo che disciplinava ingresso, soggiorno e lavoro dei cittadini algerini in Francia. L’elemento chiave è il suo carattere derogatorio rispetto al diritto comune francese (oggi confluito nel CESEDA, il Codice degli stranieri): in sostanza, per i cittadini algerini è stato creato un percorso speciale, con titoli di soggiorno e procedure amministrative differenti da quelle previste per altre nazionalità.
L’accordo è stato aggiornato più volte – nel 1985, 1994 e 2001 – per adattarlo all’evoluzione giuridica e politica, tra cui la creazione di Schengen e le riforme francesi in materia migratoria. Ha però conservato disposizioni specifiche, come la possibilità di ottenere un certificato di residenza in condizioni agevolate in determinate ipotesi, un quadro particolare per i ricongiungimenti familiari e i lavoratori, e regole ad hoc per coniugi di cittadini francesi o genitori di minori francesi. In altre parole, alcune situazioni personali o familiari possono permettere ai cittadini algerini di accedere più facilmente a un titolo di soggiorno rispetto a quanto previsto dal diritto comune. Non si tratta di un lasciapassare automatico, ma di una corsia preferenziale regolata, con diritti e doveri, e la possibilità di revoca qualora vengano meno i presupposti. L’accordo del 1968 è stato a lungo un tema ricorrente nel dibattito politico francese. I critici sostengono che oggi non sia più giustificato mantenere un regime speciale riservato a una sola nazionalità, invocando un allineamento al diritto comune per ragioni di semplicità amministrativa e coerenza con la politica migratoria europea. I sostenitori, invece, affermano che esso riflette una relazione storica unica e un’interdipendenza che nessuna riforma può cancellare. A loro avviso, la cornice bilaterale facilita l’integrazione e la cooperazione con l’Algeria su dossier sensibili – come sicurezza e Mediterraneo – mentre una rottura rischierebbe di complicare la vita di molte famiglie e imprese.
Negli ultimi anni, il tema è tornato al centro della scena per ragioni intrecciate, innanzitutto politiche: integrazione e identità sono questioni chiave nella competizione elettorale francese, e l’accordo del 1968 assume un forte valore simbolico e di posizionamento partitico. Ma anche la dimensione diplomatica ha un peso notevole: i rapporti tra Parigi e Algeri hanno vissuto fasi altalenanti.
Nel luglio 2024, Emmanuel Macron ha appoggiato il piano marocchino di autonomia per il Sahara Occidentale, regione contesa tra Marocco e Algeria – una svolta rilevante nella geopolitica nordafricana. Sempre quell’estate, Le Figaro ha pubblicato una lettera del Presidente al suo Primo ministro (allora Michel Barnier) in cui invitava a “mostrare maggiore fermezza nei confronti dell’Algeria”. Nel 2025, la crisi si è aggravata con reciproche espulsioni di agenti consolari e diplomatici, segnando un deterioramento senza precedenti dei rapporti bilaterali. Nel febbraio di quest’anno infatti, Parigi ha annunciato l’intenzione di rivedere l’accordo del 1968, con l’obiettivo dichiarato di modernizzare alcune clausole, senza però mettere in discussione l’impianto bilaterale complessivo.
L’approvazione, il 30 ottobre, della risoluzione che chiede la denuncia dell’accordo segna una forte rottura politica, più che giuridica: la mozione non è vincolante – Macron può respingere la richiesta dell’Assemblée – ma rappresenta una vittoria simbolica per il Rassemblement National sul suo tema prediletto, la lotta all’immigrazione.
Marine Le Pen ha definito il voto “un passo avanti”, nonostante il giorno precedente avesse espresso dubbi sul possibile successo dell’iniziativa, data la composizione del Parlamento. Il risultato mostra dunque la formazione di alleanze a geometria variabile e, soprattutto, la rottura del “cordone sanitario” che per anni aveva isolato il partito di estrema destra. Diciassette deputati del movimento Horizons di Édouard Philippe – vicino a Macron – e diversi dei Républicains hanno infatti votato a favore.
Il Partito socialista e i Verdi hanno criticato duramente l’assenza di Gabriel Attal e dei suoi deputati: dei 92 eletti del gruppo Ensemble pour la République, solo 30 erano presenti e hanno votato contro, con tre astenuti. Anche tra i gruppi di sinistra si sono registrate numerose assenze: su 72 deputati de La France insoumise hanno votato 52, e solo 6 su 17 tra comunisti e rappresentanti d’oltremare. Olivier Faure, segretario del PS, ha scritto furioso sui social: “Dov’erano i sostenitori di Macron?”, alludendo proprio ad Attal e al gruppo di Philippe, il cui voto ha permesso il passaggio della mozione per un solo voto di scarto. Attal si è giustificato ai microfoni di Le Monde sostenendo di avere un impegno previsto da tempo in un forum parigino (A World for Travel) e che il cambiamento improvviso dell’ordine del giorno aveva reso impossibile modificare la sua agenda.
Dal canto suo, Sébastien Lecornu ha riconosciuto la vittoria dell’estrema destra, affermando che l’accordo del 1968 “va rinegoziato perché appartiene a un’altra epoca”, ma ribadendo che la decisione finale spetta al capo dello Stato. Secondo Le Monde, la sua reazione positiva conferma che il trionfo del RN va oltre il simbolico, rafforzando l’immagine di un partito ormai, del tutto, istituzionalizzato.
In sostanza, il voto non cambia la legge, ma cambia la partita. Si aprono ora due scenari: da un lato, una revisione dell’accordo per aggiornarlo senza destabilizzare le vite costruite attorno a esso; dall’altro, una rottura netta che rischierebbe di logorare ulteriormente i rapporti tra le due sponde del Mediterraneo, in un contesto già fragile. A decidere quale strada prevarrà sarà, come sempre, un calcolo politico.
Giustizia, cultura, diritti
24 ottobre 2025
Questa settimana verrà ricordata dalla storia francese – e non solo – perché per la prima volta un ex presidente della V Repubblica è finito in carcere. Si tratta di Nicolas Sarkozy che, come accennato già qualche settimana fa tra queste righe, è stato giudicato colpevole nell’ambito dei finanziamenti illeciti libici ricevuti per la propria campagna elettorale del 2007, poi vinta, che lo portò all’Eliseo fino al 2012. L’inchiesta è stata portata avanti per anni dal giornale indipendente Mediapart, in particolare grazie al lavoro del giornalista Fabrice Arfi, che spiega l’affare Sarkozy e il conseguente processo nel film uscito quest’anno “Personne n’y comprend rien”. Il fondatore di Mediapart, Edwy Plenel, in un’intervista al Fatto Quotidiano ha parlato di una doppia vittoria, per la libertà di stampa e per l’indipendenza della giustizia, ricordando che senza il lungo lavoro del giornale da lui fondato la Francia non saprebbe ancora nulla. Ha poi ribadito che non si tratta di una sentenza di parte dei magistrati, come invece sostiene una parte della politica e della società francese che si schiera con l’ex presidente giudicandolo innocente: i magistrati che hanno potuto conoscere e studiare il caso sono stati circa un centinaio, con venticinque procedimenti in appello e dodici decisioni in Cassazione, conseguenti ai ricorsi di Sarkozy e dei suoi avvocati.
La riflessione di Plenel è però anche amara, riferita soprattutto a quello che definisce uno spettacolo mediatico attorno all’incarcerazione dell’ex presidente. D’altronde anche le principali televisioni italiane, nei servizi trasmessi agli orari di punta, non hanno cercato di ricostruire l’importanza storica della vicenda, né di spiegare il motivo della condanna di Sarkozy: sono stati mandati in onda servizi che tentavano di romanticizzare la vicenda di un ex capo di Stato finito in carcere quasi per fatalismo, e non per colpe chiare. Sembra sia stato più importante per la televisione pubblica parlare del grande amore con la moglie Carla Bruni, ritrarli mano nella mano mentre si avvicinavano al carcere dopo aver lasciato la prestigiosa dimora nel XVI arrondissement – probabilmente la zona più lussuosa di Parigi – invece di ripercorrere le tappe che hanno portato alla sentenza, anche solo per stima e solidarietà nei confronti dei colleghi giornalisti che hanno avuto la forza e le capacità di portare avanti una battaglia di questo tipo. Nicolas Sarkozy è il primo presidente europeo a finire in carcere: in Francia, prima di lui, solo Luigi XVI, re arrestato nel 1792 durante la Rivoluzione francese, e Philippe Pétain, capo del regime collaborazionista di Vichy, avevano conosciuto la stessa sorte.
Un’altra vicenda molto pop, al confine tra il divertente e il tragico, è stato il furto al Louvre di Parigi. È avvenuto tutto in sette minuti e in pieno giorno, la scorsa domenica, nel museo più grande del mondo, in maniera sorprendente e con grande facilità. Il furto è stato commesso da quattro persone con il volto coperto nella Galleria di Apollo, che si trova al primo piano del museo ed è lunga oltre sessanta metri. Per raggiungerla, i ladri si sono serviti di un montacarichi parcheggiato lungo la Senna, proprio in corrispondenza di un balcone e di una finestra che consentivano l’accesso diretto alla galleria. Sono stati diffusi in questi giorni i video che ritraggono il momento rocambolesco della fuga, con due uomini incappucciati che si calano dalla finestra con lo stesso montacarichi e poi si allontanano indisturbati. Una volta entrati, hanno usato delle smerigliatrici per rompere le teche contenenti gioielli e per minacciare il personale del museo. Uno dei principali sindacati francesi, la CFDT, ha ricordato di aver più volte denunciato la carenza di personale e le problematiche condizioni di lavoro nella Galleria di Apollo, che secondo il giornale Le Monde è tra le aree più sensibili e frequentate del Louvre. Il ministro dell’Interno Laurent Nuñez ha parlato della vulnerabilità dei musei francesi come di una questione ben nota: furti simili si sono verificati con una certa frequenza di recente, e solo a settembre dei campioni d’oro del valore complessivo di seicentomila euro sono stati rubati al Museo di Storia Naturale di Parigi. Nuñez si è detto fiducioso che i ladri – i quali avrebbero probabilmente agito su commissione – verranno trovati, ma se di loro è stato ricostruito parte del percorso di fuga fino all’autostrada A6, che collega la capitale a Lione, successivamente se ne sono perse le tracce. Durante la fuga però i ladri hanno lasciato indietro la corona dell’imperatrice Eugenia, ritrovata poi danneggiata a terra nei pressi del museo.
Sempre in tema culturale, il Centre Pompidou di Parigi ha chiuso ufficialmente le sue porte per riaprire nel 2030, e ha scelto di farlo in maniera spettacolare. Sono infatti andati in scena dei fuochi d’artificio maestosi, con lo scopo di salutare l’edificio progettato da Renzo Piano e Richard Rogers. Per la prima volta è come se la facciata del centro inaugurato nel 1977 si fosse trasformata in una grande tela, nel solco di una riflessione poetica tra distruzione e rinascita, come spiegato dai curatori. Il cantiere di restauro del museo, che ha chiuso per rinascere, dal valore di 448 milioni di euro, partirà nell’aprile 2026, e questo ultimo weekend di ottobre il Centre Pompidou ha organizzato una serie di eventi gratuiti per celebrare la propria storia. La chiusura non è priva di ombre: molti critici hanno espresso perplessità e preoccupazione per una capitale che dovrà fare a meno di uno dei suoi centri più vivaci, mentre per altri si tratta di un atto di coraggio e di un gesto necessario per rivalorizzare lo spazio di Rue Beaubourg.
Un’ultima notizia rilevante è l’introduzione del concetto di consenso nella definizione penale di stupro, nel solco dell’eredità del processo di Mazan. I parlamentari e senatori riuniti in commissione mista hanno incluso la nozione di “non consenso” nel codice penale francese, aprendo la strada all’adozione definitiva di questa modifica legislativa. Una volta approvato il testo, tutte le aggressioni sessuali saranno definite come “qualsiasi atto sessuale non consensuale”. “Il consenso è libero e informato, specifico, preventivo e revocabile” e “non può essere dedotto solo dal silenzio o dalla mancanza di reazione della vittima”, afferma il testo congiunto dell’Assemblea Nazionale e del Senato. Il disegno di legge, presentato dalle deputate Véronique Riotton (Renaissance) e Marie-Charlotte Garin (Les Écologistes), passerà al Senato probabilmente la prossima settimana, e la sua adozione non è in dubbio, poiché le maggioranze in parlamento sono ampie. Martedì però, durante la discussione in commissione, solo le due deputate del Rassemblement National hanno votato contro il testo. Nonostante questo, rimane una rivoluzione importante, eredità diretta di Gisèle Pelicot, e persiste una speranza forte: quella di porre fine alla politica dei piccoli passi, in cui le vittorie si ottengono lentamente, una legge dopo l’altra.
Questa settimana ho scritto anche di Marocco e di giovani che sfidano i loro governi, lo trovate qui → link all’articolo.
Un governo tira l’altro
17 ottobre 2025
Sébastien Lecornu è stato nominato Primo ministro. Sì, di nuovo.
Domenica sera ha annunciato la nuova compagine governativa per quello che è ormai il Lecornu II, tra beffe e incredulità. Lui, che aveva giurato alla Francia in un’intervista alla televisione pubblica che non avrebbe ripreso l’incarico, si ritrova invece a ricoprirlo nuovamente, dopo aver accettato la nomina – o forse la preghiera – di Macron. Tra ironia e disillusione, i francesi sembrano ormai stanchi e affaticati di questo teatro che è diventata la politica d’Oltralpe.
Il nuovo governo è stato dunque annunciato domenica sera, intorno alle dieci – come se con il favore del buio si potesse lavorare meglio – con qualche cambio tra i ministri, ma di fatto non sostanziale: l’assetto dell’esecutivo rimane molto vicino al Presidente della Repubblica, con dodici ministri riconfermati dal Lecornu I. Una brutta sorpresa, invece, è arrivata per i ministri del partito repubblicano (LR) di destra, che avendo accettato l’incarico governativo sono stati automaticamente espulsi dal partito guidato dall’ex ministro dell’Interno Bruno Retailleau, non riconfermato. Il partito LR resta determinante per la tenuta del governo, oggi come in futuro, e questo cambio di rotta è significativo: i repubblicani hanno deciso di prendere le distanze in modo netto da questo nuovo governo, quando ancora sembrava possibile un margine di negoziazione. Ora ripudiano invece qualsiasi politica vicina a Macron e sembrano piuttosto avvicinarsi all’estrema destra di Le Pen e Bardella.
Un altro attore rilevante nel panorama politico francese in crisi è il Partito socialista, guidato da Olivier Faure. Sono stati proprio i socialisti a condurre varie negoziazioni con il governo, nel tentativo di raggiungere compromessi ed evitare un voto di sfiducia e la conseguente caduta dell’esecutivo. Tuttavia, i socialisti sono apparsi un po’ confusi nelle ultime settimane: avevano inizialmente dichiarato che l’unica condizione per il loro sostegno sarebbe stata l’inclusione nel programma di governo dell’abolizione della riforma delle pensioni del 2023 e della tassa Zucman (di cui ho parlato qualche settimana fa – scorrete se ve lo siete perso). Questa settimana, al contrario, pur di non far cadere per la terza volta l’esecutivo, non hanno votato la mozione di sfiducia proposta dal partito di sinistra La France Insoumise, ritenendosi soddisfatti di un compromesso – per quanto fragile – raggiunto su questo tema. Nella battaglia sulla riforma delle pensioni, Lecornu si è detto disponibile a sospenderla, annunciando per novembre la presentazione di un emendamento al disegno di legge sul finanziamento della previdenza sociale che ne preveda la sospensione.
Sebbene la sospensione non equivalga a un’abrogazione, si tratta comunque della prima concessione significativa su una riforma ampiamente contestata dall’opposizione e dalle parti sociali fin dalla sua adozione, nell’aprile 2023. In concreto, significherebbe sospendere fino alle elezioni presidenziali del 2027 l’aumento dell’età pensionabile legale da 62 a 64 anni e rallentare l’incremento del periodo di contribuzione. Questa misura avrà un impatto anche sul bilancio che il Parlamento dovrà votare, nonché perno della tenuta governativa dei prossimi mesi. Consentire ad alcune generazioni di andare in pensione prima si tradurrebbe in un quarto di pagamenti in più per lo Stato e in un quarto in meno di contributi.
Tuttavia, secondo l’economista Michaël Zemmour, da una prospettiva puramente di bilancio questo costo aggiuntivo è relativamente modesto su scala annuale: si prevede che la spesa statale ammonterà a circa 500 miliardi di euro il prossimo anno, e il Primo ministro ha pianificato un aggiustamento strutturale di circa 30 miliardi. Anzi, in un certo senso la sospensione della riforma può persino rivelarsi vantaggiosa per le finanze pubbliche: senza un compromesso su questo tema tra governo e socialisti, l’esecutivo sarebbe probabilmente caduto, provocando un forte impatto sull’attività economica e sulla fiducia dei mercati nel debito francese. “Se la sospensione della riforma consente al governo di adottare un bilancio, è un buon affare dal punto di vista politico”, ha dichiarato Zemmour in un’intervista a Le Monde.
Mentre la Francia, sul piano politico interno, vive ancora un periodo di crisi e fragilità, il presidente Macron rimane invece molto attivo sul fronte internazionale. Lunedì ha partecipato all’incontro in Egitto per la pace in Medio Oriente, insieme ad altri capi di Stato mondiali e – ovviamente – alla presenza di Trump. Il Presidente francese è stato protagonista di un siparietto con il suo omologo statunitense, che gli ha detto: “Hai scelto un profilo basso oggi, Emmanuel”, vedendolo seduto tra il pubblico e non in piedi durante il vertice per la fine delle ostilità tra Israele e Hamas.
Rimane evidente la volontà di Macron di posizionarsi al centro delle sfide internazionali; e, come spesso accade, è dall’estero che risponde alle domande sulla politica nazionale, eludendole invece quando si trova in patria. Appena atterrato in Egitto, ha dichiarato che i soli responsabili della crisi sono le forze politiche che hanno sfiduciato il governo Bayrou e destabilizzato Lecornu. Secondo i suoi critici, si allontanerebbe volutamente dalla Francia per evitare di gestire un disordine politico di cui molti lo ritengono artefice.
La Francia mantiene inoltre un ruolo anche in Madagascar. Dopo settimane di manifestazioni popolari contro il governo, guidate soprattutto da giovani della cosiddetta Generazione Z e sulla scia di un’ondata di proteste internazionali – dal Marocco al Nepal, fino al Perù – il presidente Andry Rajoelina (salito al potere nel 2009 in seguito a un colpo di Stato militare e riconfermato nel 2019) è stato deposto dai militari del CAPSAT e costretto alla fuga all’estero. Secondo la stampa francese, si troverebbe a Dubai, dove sarebbe riuscito ad arrivare grazie all’intervento della Francia, di cui il Madagascar è stato una colonia fino al 1960. A inserirsi nella successione è stato il colonnello Michaël Randrianirina, portavoce e unico volto riconoscibile dei CAPSAT – gruppo caratterizzato da una leadership diffusa. Randrianirina si è presentato davanti al palazzo presidenziale questa settimana, annunciando la sospensione di tutte le istituzioni dello Stato – Senato, Corte costituzionale e Commissione elettorale – lasciando attiva solo l’Assemblea nazionale, la camera più importante del Parlamento. I CAPSAT stanno cercando di presentare quanto accaduto non come un colpo di Stato, ma come una rivoluzione popolare sostenuta dai militari. Venerdì 17 ottobre il colonnello si è insediato ufficialmente come nuovo Presidente, alla presenza di delegazioni straniere – tra cui quella francese – e il 16 ottobre il ministro degli Esteri Jean-Noël Barrot ha dichiarato che “la transizione è cominciata”, in quella che è l’ultima di una serie di ex colonie francesi passate sotto controllo militare dal 2020, e uno dei paesi più poveri al mondo.
Con Macron che cerca di incarnare la figura del mediatore globale, la Francia continua a interrogarsi sulla propria stabilità interna. Dietro la diplomazia e foto ad effetto, resta un paese diviso e stanco di governi che si succedono con stagioni politiche sempre più brevi. Anche Lecornu II nasce già con il fiato corto, non basterà di certo sospendere una riforma per riconciliare un popolo che ha perso fiducia nella propria rappresentanza.
48 ore per salvare la Francia
10 ottobre
Ci eravamo lasciati dicendo che in Francia non stava succedendo nulla di particolarmente nuovo o rilevante — e infatti, nel giro di poche ore, è successo di tutto.
Proviamo ad andare con ordine. Domenica sera, a sorpresa, il premier ormai dimissionario – tra poco ci arriviamo – Sébastien Lecornu ha annunciato la composizione del suo governo. Rimaneva sostanzialmente uguale al precedente, con qualche modifica che non è piaciuta né ai partiti né alla popolazione. Era stato nominato, ad esempio, Bruno Le Maire, ex ministro dell’Economia e delle Finanze dal 2017 al 2024, figura poco amata in Francia e spesso considerata tra i responsabili dell’attuale crisi del debito. Avrebbe dovuto ricoprire, nel nuovo esecutivo, il ruolo di ministro delle Forze armate. Tra chi invece rimaneva al proprio posto figuravano Gérald Darmanin alla Giustizia (anch’egli figura discussa), Bruno Retailleau all’Interno e Jean-Noël Barrot agli Affari esteri.
La mattina successiva, verso le nove e mezza, il premier ha rassegnato le proprie dimissioni al Presidente della Repubblica, affermando che “le condizioni non erano riempite”. In effetti, subito dopo l’annuncio della formazione del governo, i partiti avevano espresso un malcontento generale. Il caso più eclatante è stato proprio quello di Retailleau, che, pur essendo stato incaricato ministro, ha dichiarato di non essere soddisfatto e di non aver visto “un vero cambio di passo” nella composizione del governo. Sembrava quasi uno scherzo — o forse una mossa strategica ben pensata — ma è apparso immediatamente strano che il ministro dell’Interno minacciasse di non sostenere l’esecutivo… di cui faceva parte. Macron ha accettato le dimissioni di Lecornu, ma, nel corso della stessa giornata di lunedì, gli ha chiesto di tentare un’ultima mediazione entro mercoledì, per verificare se vi fossero ancora margini di intesa.
Comincia così una seconda fase: 48 ore di trattative febbrili, durante le quali Lecornu tenta una disperata mediazione tra i partiti, che continuano a porre condizioni molto precise per il loro eventuale sostegno al prossimo governo. Il premier ha fatto sapere di voler portare avanti la mediazione “in modo responsabile”, ma ha escluso di poter guidare di nuovo un esecutivo.
Sotto questo slancio, i partiti hanno cercato in fretta di organizzarsi in riunioni per discutere sull’avvenire. Jean Lui Mélenchon, leader di La France Insoumise, ha chiesto all’alleanza di sinistra (NFP) di riunirsi, ma la metà di loro non ha risposto all’appello. Nella destra invece, il partito di estrema destra RN ha chiesto dai repubblicani, partito di destra moderata, di allearsi con loro, che è stato per il momento rifiutato ma in maniera poco convincente. In ogni caso le cose possono evolversi rapidamente.
I contatti più intensi da parte di Lecornu si sono avuti con il Partito Socialista, che si è detto disposto a sostenere un nuovo governo in cambio però di alcune concessioni. Il punto più controverso resta la riforma delle pensioni, avviata nel 2023 sotto la guida di Élisabeth Borne: anche ora rappresenta un tema cruciale per evitare lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni, che rischierebbero di produrre un’Assemblea altrettanto frammentata. La riforma prevede l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, e perfino la stessa Borne ha dichiarato che occorre trovare dei compromessi con la sinistra per uscire dall’impasse. Anche Marine Tondelier, segretaria degli ecologisti, ha dichiarato questa settimana che “la Francia è molto vicina ad avere un nuovo primo ministro di sinistra”, alludendo chiaramente a una possibile coabitazione. Le trattative tra partiti, dunque, sembrano proseguire con risultati tutto sommato positivi.
Nessun dialogo, invece, con l’altro lato dell’emiciclo: il partito di Marine Le Pen ha ribadito senza mezzi termini di volere solo lo scioglimento del Parlamento — e quindi un ritorno alle urne — o, in alternativa, le dimissioni di Macron. Anche Mélenchon esclude ora qualsiasi fiducia a un governo che includa i socialisti, partito di cui peraltro ha fatto parte fino al 2008, quando fondò il suo movimento.
Mercoledì 8 ottobre, Lecornu è apparso in diretta su France 2, intervistato da Léa Salamé di fronte a otto milioni di concittadini che lo seguivano in diretta. Oltre a ribadire di aver “fatto il possibile”, ha dichiarato che Macron potrebbe nominare il prossimo primo ministro entro 48 ore. Sulla questione delle pensioni, ha sottolineato che “occorre trovare un percorso affinché possa svolgersi un dibattito costruttivo”. Ma se Retailleau ha già detto che non farà parte di un governo guidato da un premier “macronista o di sinistra”, la strada appare ancora piuttosto impervia.
Una cosa però è certa: per Macron è molto più vantaggioso restare in carica e non indire nuove elezioni. Lui è il grande assente di questo momento all’interno della politica del suo paese: più interessato a mostrarsi un mediatore internazionale, e solo in mezzo alla crisi interna francese, non ha ancora fatto alcuna dichiarazione . Resta da capire se sarà davvero pronto ad accettare una coabitazione.
In questi giorni si è verificato il processo di appello a uno degli uomini condannati per stupri commessi su Gisèle Pelicot, la donna francese nota per il caso contro l’ex marito, colpevole di averla sedata per dieci anni senza che lei fosse consapevole, e di averla violentata e fatta violentare da decine di altri uomini mentre era incosciente. Nel processo di primo grado, svoltosi nel 2024, 51 uomini erano stati imputati, tra cui l’ex marito, che aveva ricevuto la pena massima di 20 anni di reclusione. Diciassette di loro avevano presentato ricorso in appello, ma solo uno era stato accolto. Husamettin Dogan, 44 anni, condannato a 9 anni di carcere, ha continuato a dichiararsi vittima del signor Pelicot e di quello che ha definito un sistema da lui creato. Un imputato senza speranza e un processo inutile, nel quale Gisèle Pelicot, con la forza e la determinazione che l’hanno contraddistinta nella sua battaglia, ha dichiarato con fermezza “l’unica vittima qui sono io”.
Questa settimana ho scritto anche un altro articolo, lo trovate qui → link all’articolo sul Libano.
Niente di nuovo sul fronte francese
4 ottobre 2025
Un fil rouge lega Francia e Italia questa settimana: in entrambi i Paesi le piazze si sono riempite di manifestanti. Nel Belpaese – che, almeno stavolta, sembra aver superato la Francia per partecipazione – le mobilitazioni si sono moltiplicate in tutte le città, con una partecipazione che non si vedeva da tempo. L’obiettivo: denunciare lo scollamento tra società civile e governo sulla crisi umanitaria e sulla guerra a Gaza. Oltralpe, invece, la manifestazione più attesa si è tenuta il 2 ottobre. Indetta dai sindacati dopo il successo del corteo del 18 settembre, mirava ancora una volta a fare pressione sulla politica. Da oltre un mese, infatti, la Francia è senza un governo, e la situazione politica resta incerta.
Rispetto alla mobilitazione precedente, quella di questa settimana ha registrato una flessione nella partecipazione. Il ministero dell’Interno ha contato 195.000 persone, mentre secondo la CGT sarebbero state circa 600.000. Al di là dei numeri, comunque significativi, lo spirito sembra cambiato: tra chi appare rassegnato e chi teme che le proteste non porteranno risultati concreti, molti manifestanti si interrogano sulla possibilità di una futura radicalizzazione del movimento. Le rivendicazioni restano le stesse: una più equa distribuzione della ricchezza, il rifiuto dei pensionamenti tardivi, più fondi per la scuola e per gli ospedali, e soprattutto una politica percepita come inerme.
A un mese dalla sua nomina, il primo ministro Sébastien Lecornu non è ancora riuscito a formare un governo né a ottenere la fiducia dell’Assemblea. Questa settimana ha incontrato diversi partiti – dal Rassemblement National ai socialisti, dai comunisti agli ecologisti – ma le consultazioni si sono rivelate ancora una volta infruttuose. Fabien Roussel, segretario del Partito comunista, si è detto deluso per la mancata apertura del premier sulla richiesta di abrogare la riforma delle pensioni. Olivier Faure, leader socialista, ha parlato di una situazione “quasi allarmante”. Entrambi attendono ora la dichiarazione di politica generale prevista per martedì, vero banco di prova per la sopravvivenza politica del premier.
A colpire è stata la decisione di Lecornu di rinunciare all’uso dell’articolo 49 comma 3 della Costituzione, che consente al governo di approvare una legge senza il voto dell’Assemblea nazionale. Introdotto con la riforma costituzionale del 1958, questo articolo consente al governo di approvare una legge senza il voto dell’Assemblea Nazionale. È considerato dalla politica e dalla società in generale come una forzatura, poiché riduce il dibattito parlamentare e limita il ruolo del parlamento. È usato inoltre per uscire da situazioni di impasse, o per votare leggi particolarmente divisive. Dal 1958, è stato attivato oltre 100 volte, e può essere utilizzato senza restrizioni solo per leggi di bilancio e testi di finanziamento della previdenza sociale. Per tutte le altre proposte di legge, il suo impiego è stato limitato a un solo utilizzo per sessione parlamentare ordinaria (da settembre a giugno) e a uno per sessione straordinaria estiva.
La rinuncia del premier ha messo in imbarazzo i socialisti, che proprio sull’abolizione del 49.3 avevano fondato una delle loro principali richieste. Ora dovranno trovare altri motivi per giustificare un eventuale voto di sfiducia. Dall’altro fronte, Marine Le Pen ha già minacciato di sostenere una mozione di censura prima ancora della presentazione della legge di bilancio. Resta dunque da capire come Lecornu potrà ottenere il sostegno necessario per formare un governo. La prossima settimana sarà cruciale: la sua dichiarazione di politica generale potrebbe decidere il suo destino politico. E se la situazione dovesse restare bloccata, Macron potrebbe essere costretto a intervenire. Che sia forse arrivato il momento delle sue dimissioni?
Difficile equilibrio politico a Parigi
27 settembre 2025
Lunedì sera, il Presidente francese Emmanuel Macron ha pronunciato un discorso presso la sede delle Nazioni Unite a New York, nel quale ha ufficialmente riconosciuto lo Stato di Palestina. Di fronte a un’Assemblea in cui erano assenti le delegazioni di Israele e degli Stati Uniti, Macron è apparso determinato e sicuro, ribadendo la necessità di pace e di una soluzione a due Stati. “Il tempo è arrivato”, ha ripetuto più volte, rendendo definitiva la decisione già annunciata la scorsa estate.
Nel suo intervento, Macron ha chiesto di interpretare questa decisione come un modo per affermare che “il popolo palestinese non è un popolo di troppo”, e che i suoi diritti legittimi devono finalmente essere riconosciuti. Ha inoltre condannato l’attacco di Hamas del 7 ottobre, definendolo il peggiore mai subito da Israele, e ha chiesto la liberazione di tutti gli ostaggi, condizione che considera imprescindibile per il proseguimento dei negoziati.
Un altro capo di Stato ha preso la parola all’Assemblea Onu questa settimana: ne ho parlato qui → link all’articolo su al-Sharaa.
Sempre da New York è arrivato anche il sostegno di Macron nei confronti del primo ministro Sébastien Lecornu, che sta prendendo tempo per formare il nuovo governo. “Bisogna lasciarlo fare, è normale”, ha dichiarato Macron, di fronte a una situazione politica in cui il capo del governo sembra non avere fretta. Tuttavia, i ritardi potrebbero indicare difficoltà nel trovare una maggioranza all’Assemblea Nazionale. Questa settimana Lecornu ha incontrato i sindacati, che hanno lamentato la mancanza di risposte concrete e hanno indetto un nuovo sciopero per il 2 ottobre. L’intersindacale ha dato un ultimatum al primo ministro, chiedendo risposte su temi chiave come la giustizia fiscale. Tra le misure sul tavolo c’è la cosiddetta tassa Zucman – una proposta di tassare del 2% i grandi patrimoni – oggetto di negoziati tra il governo e il Partito Socialista. La strada appare però ancora lunga, e non è certo che Lecornu riuscirà a comporre il suo esecutivo in tempi rapidi.
Ma la notizia che ha davvero scosso la Francia questa settimana riguarda l’ex Presidente Nicolas Sarkozy, condannato a cinque anni di carcere per associazione a delinquere e per aver tentato di ottenere finanziamenti illeciti dall’ex dittatore libico Muʿammar Gheddafi durante la campagna per le presidenziali del 2007, poi vinte da Sarkozy al ballottaggio.
Sarkozy è stato Presidente della Repubblica dal 2007 al 2012 con l’Union pour un Mouvement Populaire (UMP), partito di destra poi confluito in Les Républicains, fondato dallo stesso Sarkozy nel 2015. L’ex presidente è coinvolto in diversi processi ed è già stato condannato due volte per corruzione — reato che in Francia sussiste anche in assenza di uno scambio di denaro, se vi sono prove di un tentativo di ottenere vantaggi indebiti. Il processo conclusosi questa settimana è il più significativo e giunge al termine di un’indagine durata dieci anni. Secondo l’accusa, Gheddafi avrebbe finanziato Sarkozy in cambio di favori diplomatici, legali e commerciali, per riabilitare la propria immagine presso l’Occidente. Gheddafi, al potere in Libia dal 1969, governava in maniera autoritaria e repressiva ed era accusato di essere responsabile di due attentati contro aerei occidentali.
È stato il giornale indipendente Mediapart, specializzato in inchieste, a rivelare nel 2012 l’esistenza di un documento del 2006 che faceva riferimento a un accordo tra Gheddafi e Sarkozy. Parte dell’accusa si basa sulle dichiarazioni dell’uomo d’affari franco-libanese Ziad Takieddine, che per anni ha sostenuto di aver consegnato personalmente cinque milioni di euro in contanti a Sarkozy per conto di Gheddafi. Sarkozy e i suoi avvocati hanno sempre negato le accuse, sostenendo che si tratti di una vendetta politica legata all’appoggio dato dall’allora presidente francese all’intervento militare che nel 2011 rovesciò il regime di Gheddafi e portò alla sua uccisione. Appena due settimane fa, il neo-primo ministro Lecornu aveva incontrato Sarkozy nel suo ufficio: un fatto che oggi assume un peso politico particolare, considerando che Lecornu mosse i primi passi della sua carriera proprio nelle file dell’UMP, prima di diventare un fedele di Macron.
Una brutta fine, dunque, per l’ex Presidente, che, pur non ricoprendo più incarichi pubblici dal 2012 — quando perse le elezioni contro François Hollande — continua a esercitare un’influenza notevole, talvolta ingombrante, sulla politica francese.
Tra rabbia e speranza
19 settembre 2025
In un contesto italiano social in cui stiamo assistendo all’ascesa inaspettata di Enzo Iacchetti come eroe mediatico dopo il suo intervento in favore della causa palestinese nello studio di Bianca Berlinguer, il clima francese di questa settimana rimane caratterizzato da una forte mobilizzazione sociale. Ha avuto luogo, infatti, lo scorso giovedì 18 settembre uno sciopero indetto dai sindacati uniti (l’intersindacale, appunto), che hanno chiamato a manifestare e scioperare in tutti i settori contro le misure di austerità economiche presentate dall’ex primo ministro e non ancora revocate dal suo successore.
Nella giornata di questo giovedì, secondo la CTG, si sono raggiunti più di un milione di partecipanti nel territorio francese, mentre secondo le autorità il numero si assestava intorno ai 500.000. Non sembrano stupiti i giornalisti, che in testate come Le Monde o Mediapart alludono al periodo della riforma delle pensioni nel 2023, proficuo dal punto di vista delle mobilizzazioni popolari. Nel primo semestre di due anni fa, il tasso di un milione di manifestanti era stato raggiunto con una certa facilità e a più riprese in un momento, come si diceva, in cui le proteste in piazza erano frequentissime.
A Parigi ieri era praticamente impossibile spostarsi utilizzando i mezzi pubblici. Circa l’80% dei lavoratori del settore hanno infatti preso parte alla protesta: solo due linee della metro, le automatiche 4 e 14, funzionavano. A Marsiglia i farmacisti hanno chiuso le loro attività, con tra il 90 e il 95% delle stesse in sciopero, per protestare contro l’aumento dei prezzi dei laboratori. Anche le scuole di tutta la Francia sono state le protagoniste di questa battaglia, con una media di 1 insegnante su 3 che vi ha aderito per denunciare la “deriva degradante della scuola pubblica” (da Le Monde).
Per quel che riguarda i cortei invece, l’appuntamento era alle 14 da Place de la Bastille e la partecipazione è stata variegata: molti gruppi si sono presentati con bandiere palestinesi, altri si sono riuniti insieme al collettivo Sans Papiers - associazione che si occupa di migranti e rifugiati - altri ancora, specie giovani, hanno protestato con cartelloni che riportavano “non so nemmeno più che cosa scrivere da quante cose non funzionano” (da Mediapart). Anche a Lille il numero è stato elevato, ed è stata l’idea di elezioni presidenziali anticipate o meno a dividere i militanti della sinistra. In generale, a parte un giornalista ferito a Lione, i cortei si sono rivelati essere piuttosto pacifici.
Le rivendicazioni di questa settimana riguardano, ancora una volta, una ferma contrarietà alle politiche presidenziali, nonché lo scontento nei confronti del nuovo primo ministro. Non solo, questo sciopero ha cercato in un certo modo di fare pressione sulla politica, in un contesto in cui un nuovo governo sta per formarsi, e Lecornu si destreggia in consultazioni con i partiti. La strada appare ancora tortuosa, ma sostanzialmente con una possibilità più concreta delle altre: cercare un accordo con il partito socialista, che il nuovo primo ministro ha già incontrato varie volte per cercare negoziazioni. Fra gli altri partiti che ha incontrato, anche gli ecologisti, il partito comunista, e il Rassemblement National. Marine Le Pen però ha dichiarato in un incontro a Bordeaux con gli elettori che non vi è alcuna possibilità di accordo; per il partito socialista invece sarebbe vantaggioso far parte del nuovo governo e scongiurare dunque nuove elezioni, in seguito alle quali perderebbero probabilmente molti elettori. Anche l’ex presidente della Repubblica Hollande ha consigliato a Lecornu di cercare una mediazione e vicinanza con i riformisti.
Un altro appuntamento ha segnato la Francia e il suo panorama progressista nei giorni scorsi. La Fête de l’Humanité è un evento atteso, che riunisce persone, cultura e politica. Creato nel 1930, è oggi il festival popolare più grande del paese, un appuntamento legato al famoso quotidiano fondato da Jean Jaurès e dal quale prende il nome. Ha luogo ogni anno il secondo weekend di settembre nei pressi di Parigi, in una vecchia base aerea dell’esercito a Bretigny sur Orge. Nel corso degli anni tantissimi artisti di fama mondiale vi hanno preso parte con concerti, tra cui i Pink Floyd, Deep Purple, Leonard Cohen: quest’anno vi era, tra gli altri, l’artista statunitense Patty Smith.
Lo spirito del festival è quello di un fronte popolare - come fra il 1945 e 1949, nel periodo di ricostruzione democratico della Francia - che fa appello all’unità dei lavoratori e che si mobilita contro ogni fascismo e la guerra. Diventa inoltre il ritrovo annuale più importante per la sinistra francese, nonché l’occasione per discutere, scambiarsi idee e creare i presupposti per future alleanze. Nei prossimi mesi la Francia sarà chiamata a esprimersi di nuovo politicamente in sede delle elezioni municipali, e la sinistra risulta ancora divisa. Anche la capitale subirà un cambio dell’inquilino di Hotel de Ville: l’uscente sindaca Anne Hidalgo del partito socialista ha dichiarato che non si ricandiderà.
Alla Fête de l’Huma però, come si diceva, gli incontri sono internazionali, e quest’anno vi era anche l’italiana Francesca Albanese, relatrice speciale per le nazioni unite sui territori palestinesi occupati. Con un francese fluido, ha dichiarato come prima cosa, alla folla che l’ha accolta, che la presenza di tutti dimostra la vicinanza al popolo palestinese. Degli studenti intervistati dopo il suo intervento dicono di avere ritrovato energia e fiducia in un futuro migliore che, al festival dell’umanità, appare possibile per davvero.
Cronache di una crisi annunciata
12 settembre 2025
Lunedì 8 settembre, come atteso, l’ormai ex premier francese Francois Bayrou è stato sfiduciato dall’Assemblée nationale, camera bassa del parlamento francese. Concludendo il suo operato con un discorso molto duro, alludendo a una nazione che vive quasi sopra le proprie possibilità, i deputati e i partiti non hanno risposto al sollecito di trovare un’intesa, e 364 parlamentari hanno votato contro. Da sinistra, La France Insoumise ha chiesto subito le dimissioni di Macron, e anche per il deputato di Debout Francois Ruffin il problema è da ascrivere a un presidente che è chiuso nel suo palazzo e che blocca i francesi con delle decisioni prese da solo, senza ascoltarli. Il partito di estrema destra RN ha dichiarato invece, tramite i suoi volti più noti Marine Le Pen e Jordan Bardella, che si riserverà la possibilità di vedere chi sarà nominato e che cosa deciderà di fare, tenendo forse aperta la porta a una collaborazione nel prossimo esecutivo.
In serata di martedì 9 settembre, dopo appena 24 ore dal voto di sfiducia al leader di MoDem, Macron ha nominato il nuovo primo ministro: Sebastien Lecornu. In tempi record appunto, è stato scelto ancora una volta un uomo vicino al presidente, esperto di forze armate, di cui è stato a capo dal 2022 al 2025. Lecornu è conosciuto negli ambienti della destra francese: fino al 2017 faceva parte di Les Republicains, partito di Sarkozy per intenderci, per poi passare a Renaissance, partito di Macron. Lecornu si era inoltre opposto alla legge ‘mariage pour tous’ che promuoveva il matrimonio fra persone dello stesso sesso, ed in passato aveva espresso frasi celanti una certa omofobia, tra cui “il comunitarismo gay mi esaspera” - come riporta il giornale Mediapart. Per il porta parola di Stop Homophobie Maxime Haes, il nuovo premier fa parte degli eletti che sono responsabili della crescita dell’omofobia in Francia. Grande amico di Darmanin, il controverso politico ex ministro dell’interno e attuale ministro della giustizia, proprio quest’ultimo ha salutato l’arrivo del nuovo premier con generosi elogi nei suoi confronti, parlando di lui come “un uomo politico importante e aperto al dialogo”. E mentre nella giornata di mercoledì 10 avviene il passaggio di poteri in una Francia mobilizzata e in rivolta, il giornale Le Monde titola che questo è il governo dell’ultima chance.
Ma che cosa è successo inoltre sempre nella giornata di mercoledì?
Mentre a Matignon il nuovo e vecchio primo ministro si sono incontrati per il passaggio di consegne senza esprimere una parola sul movimento sociale in corso, l’attesa mobilitazione ha preso luogo in tutto il Paese già dalle prime ore del mattino con uno spirito generale che dimostra “una rabbia enorme e voglia di rivoluzione”. Il ministero dell’interno ha annunciato un numero di 197 000 partecipanti, mentre la CGT, il principale sindacato francese ha riportato un numero più alto, pari a 250 000. C’è stata dunque una buona partecipazione per la prima mobilitazione dopo l’estate, e numerosi blocchi come era stato annunciato sono avvenuti in varie parti del territorio. Il ponte di Caen ad esempio, nel nord della Francia, è stato bloccato per circa sette ore, e a Rennes è stata presa di mira la ‘rocade’, la circonvallazione che racchiude la città. In altre parti del paese invece si sono sviluppate delle maniere più creative di aderire al movimento: a Chambéry, Strasburgo e Clermont-Ferrand i protagonisti sono stati i ciclisti con la “vélorution”.
Le forze dell’ordine schierate nella giornata del 10 settembre sono state in tutto 80 000, e dalle 4 del mattino hanno usato dei sofisticati dispositivi di sicurezza, tra cui droni, per avere la dimensione e la previsione di quello che sarebbe accaduto. All’incirca, vi era quindi un poliziotto per due manifestanti, il che ha permesso una repressione e un controllo preciso, nonché l’impedimento di grandi blocchi nelle città più importanti.
Non è corretto dire che questo movimento è nato da destra e da no vax, come ha scritto su instagram il Corriere della Sera. Il movimento “Blocchiamo tutto”, nato dai social in maniera del tutto spontanea, aveva e ha lo scopo di mobilizzare e unire la popolazione a seguito di una scontentezza che è piuttosto lunga e non riducibile soltanto agli ultimi mesi. I francesi infatti non si sentono ascoltati dal presidente nelle sue scelte da luglio dello scorso anno, quando sono avvenute le ultime elezioni legislative. Il sentimento verso il presidente non è cambiato quando ha deciso di nominare un nuovo premier questo martedì afferente allo stesso gruppo, malgrado un voto di sfiducia, e un cambiamento sperato. È un movimento che racchiude quindi un malcontento generale, e gradualmente nelle ultime settimane si è avvicinato alla sinistra, è stato ripreso da LFI, dagli ecologisti, dal partito comunista e dai socialisti contro una politica presidenziale che cambia per non cambiare nulla davvero, come sostengono.
Si può constatare sia un buon inizio per il movimento, a seguito del quale numerosi gruppi si sono dati appuntamento in settimana con assemblee generali per analizzare quanto avvenuto e riflettere sul da farsi, e la CGT ha già indetto uno sciopero generale per il 18 settembre, il prossimo appuntamento da attenzionare.
Rientro, ma non per tutti
5 settembre 2025
Il rientro della politica francese dopo l’estate si preannuncia da qualche settimana tormentato.
Il prossimo 8 settembre infatti sarà cruciale per l’attuale governo in carica guidato da Francois Bayrou, il quale potrebbe non ottenere più il sostegno dei partiti, ed essere quindi costretto alle dimissioni. In un contesto politicamente instabile ormai da qualche anno, il governo Bayrou aveva succeduto il precedente con a capo Barnier appena lo scorso dicembre 2024. Già al momento della sua formazione l’esecutivo si configurava come fragile, e Bayrou aveva proprio dichiarato di trovarsi di fronte ‘a un Himalaya di difficoltà’, in un discorso breve in cui evocava anche gli ostacoli economici francesi di fronte a un debito pubblico sempre più grande. Era stato il rigore nei confronti della politica di bilancio ad essere uno dei capisaldi del nuovo primo ministro. Bayrou aveva presentato una bozza della legge di bilancio a fine luglio nella quale, per cercare di recuperare 44 miliardi di euro nel tentativo di provare a risanare il debito, aveva avanzato proposte molto criticate dalle opposizioni, tra cui l’abolizione di due giorni festivi e la soppressione dei rimborsi di medicinali.
Se da un lato è vero che la Francia è oggi il terzo paese per debito pubblico europeo, dopo Grecia e Italia, dall’altro gli allarmismi del governo francese appaiono infondati anche a economisti di grande statura. Per Mathieu Plane, vicedirettore del dipartimento analisi e previsioni dell’OFCE, il parallelismo con la Grecia è certamente inadeguato. In più, il problema della legge di bilancio in ballo è che prevede uno sforzo che peserà principalmente sulla classe medio-bassa, con invece i grandi ricchi e le grandi imprese che non ne pagheranno il prezzo. Ecco quindi il senso della proposta di legge Zucman sui grandi patrimoni, di cui si dibatte da un pò oltralpe e che vorrebbe tassare del 2% i capitali che depassano i 100 milioni di euro. Questa legge secondo i suoi promotori - i verdi in primis - potrebbe apportare 20 miliardi di euro all’anno, avendo così un impatto significativo anche nel riassestare il debito pubblico in un paese in cui sono concentrati fra i maggiori miliardari mondiali, tra cui Bernard Arnault.
La Francia continua ad avere la sua rispettabilità economica, e anche per gli investitori esteri è improbabile che il paese possa fallire. Certo, non è detto che la situazione vada migliorando, considerata anche la crisi politica che si profila all’orizzonte. Quale scenario si delinea dunque per Macron, che ormai sembra essersi abituato ai numerosi cambi di inquilini a Matignon? Le opzioni sembrano essere sostanzialmente tre : la creazione di un nuovo governo - che sarebbe il terzo dall’inizio della nuova legislatura -, nuove elezioni dopo le ultime dell’estate 2024, o infine le dimissioni del Presidente stesso. Quest’ultimo scenario non appare così lontano dalla realtà se diamo un’occhiata ai dati, e cioè il 64% della popolazione francese vorrebbe le dimissioni del Presidente della repubblica piuttosto che un nuovo primo ministro. E mentre quindi l’estrema destra del Rassemblement National e il gruppo di sinistra dei verdi, socialisti e LFI dichiarano di votare contro lunedì 8 settembre, Macron si conferma essere al momento più basso della sua popolarità dal suo ingresso all’Eliseo nel 2017. Solo il 19% dei francesi sostiene infatti il suo operato.
Altro appuntamento importante per la politica e la società francese è il prossimo 10 settembre. È partito dai social e dal basso - un pò come ai tempi dei gilets jaunes - questo movimento che si è creato in risposta alla proposizione del nuovo budget monetario, e in generale al malcontento politico nei confronti del governo. Se c’è una cosa che di certo non va insegnata ai francesi è come organizzarsi e manifestare. Il movimento ha preso vita durante il mese di luglio 2025, quando la scontentezza ha spinto gli individui a riunirsi con l’obiettivo di bloccare tutto e fermare il paese. L’insoddisfazione politica francese non è una novità, anzi la si può certamente ricondurre alle elezioni legislative dello scorso anno, quando la cittadinanza non si è sentita ascoltata nella scelta della composizione dell’esecutivo.
Secondo alcuni sondaggi, il movimento del 10 settembre sarebbe più popolare di 4 volte del governo in carica - forse a questo punto ancora per poco. Delle assemblee generali e pubbliche prendono vita in tutte le città di Francia, soprattutto a Parigi, per definire come agire il 10 settembre, dal blocco di grandi strade e svincoli autostradali ai negozi e città intere, con l’obiettivo di fermare per un giorno l’economia. Mentre appaiono tag in sostegno al movimento e cartelli con slogan come ‘Bye Bayrou’ o ’Jour Férié’ (giorno festivo), il primo ministro ironizza sulla mobilitazione popolare citando il film Asterix e Obelix missione Cleopatra, facendo intendere ad ogni modo di essere al corrente della tensione sociale, e di averne probabilmente un pò paura.